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Cronaca

Mamme da legare: L’odissea di una puerpuera in attesa della montata lattea

La scorsa settimana vi ho raccontato del mio parto, che è stato un cesareo programmato.

Durante il corso di preparazione al parto che avevo seguito, mi era stato detto che spesso, se il cesareo non è preceduto dal travaglio, la montata lattea può tardare qualche giorno in più. Io mi sono preparata mentalmente a quest’eventualità, ricordando le regole d’oro: stimolazione da parte del bambino del capezzolo e tranquillità da parte della madre. Ce la potevo fare.

Non ce l’ho fatta. La bambina si è attaccata subito senza il minimo sforzo. Lo sforzo era il mio, coi morsi uterini che mi davano i tormenti. Il mio utero, col suo bel ricamino, si contraeva a forza di staffilate, mentre cercavo di non maledire tutto il mondo e gli antidolorifici inutili perché, al mio minimo lamento, la bimba iniziava a piangere. Questa cosa non smetteva di stupirmi: poteva esserci tutto il rumore di questo mondo ma, se io mi lamentavo, lei piangeva. Il colostro, intanto, sembrava bastarle, e il mio seno sembrava prendere la giusta strada. Finché, la notte tra il terzo e il quarto giorno, la bambina cominciò a piangere e tremare e a non volersi attaccare al seno. Immaginate me e il padre: io nel panico costretta a letto, lui nel panico in piedi. L’infermiera del nido venne subito e, tirando fuori da non so dove tutto il kit, fece una punturina sul tallone della bimba per il prelievo e sentenziò: glicemia un po’ bassa.

La pediatra, allora, prescrisse la famigerata “aggiunta”. Io non voglio entrare nel merito di una discussione che fa litigare diverse fazioni di ostetriche: il biberon non incide sull’allattamento, il biberon pregiudica l’allattamento al seno. Io so solo che avevo così paura che la bimba non si attaccasse più che, alla fine, realmente non si è più attaccata. Preciso, però, che ho visto spillatori per birra col buco più stretto dei biberon dell’ospedale. Era però un vero peccato insistere solo con la bimba senza l’ausilio di quello che, da un infermiere, veniva chiamato il “reparto mungitura”: una fila di tiralatte con mamme attaccate come vacche alle coppette malefiche. Insomma: già non riuscivo a tenere in braccio la bimba, se non fossi nemmeno riuscita ad allattarla, tanto valeva che chiamasse “mamma” il papà, che si prendeva cura di lei più di quanto facessi io! Secrezioni ce n’erano in abbondanza, bastava convincere la bimba a sforzarsi un po’ di più. Ma, con l’incubo della glicemia, al primo pianto prolungato le davo il biberon.

Quando siamo tornate a casa, e oramai riuscivo a tenerla in braccio e a muovermi anche senza aiuto, quella della poppata era diventata un’ossessione. Attaccavo la bimba al seno, lei mangiava mentre io controllavo per quanti minuti, poi lei si staccava, le davo l’aggiunta, la affidavo a mia madre e mi attaccavo al tiralatte. Finché, verso il dodicesimo giorno, invece di controllare quanti minuti restava al seno mia figlia mi venne in mente di controllare quanti minuti stessi io attaccata al tiralatte invece di tenere la bambina in braccio. Se dopo dodici giorni la montata non era arrivata, era il momento di arrendersi al latte artificiale e di non farsi venire un esaurimento nervoso. Ho eliminato dalla mia memoria tutto quel che avevo letto sui benefici dell’allattamento al seno e ho lasciato solo ciò che sapevo sulla necessità per un neonato di avere un contatto fisico prolungato e sereno con la mamma. Il tiralatte è stato riposto, ho comprato un sacco di biberon colorati perennemente tra le scatole per essere lavati, asciugati e sterilizzati e la mia attenzione è stata finalmente monopolizzata dall’unica protagonista della storia, che non è la mia ghiandola mammaria ma la mia bambina.

Foto | Flickr

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