Cronaca
Mamme da legare: Dal nome proprio a “mamma di…”, come cambia la percezione che gli altri hanno di te dopo il parto
Il cambiamento fu immediato, me ne resi conto appena mi riportarono nella stanza dalla sala operatoria e le infermiere entrarono per cambiarmi la flebo: avevo perso il mio nome.
Lì, sul lettino operatorio, avevo smesso di essere “Graziella”, “signora” per l’equipe medica, ed ero diventata “mamma”. Quando la pediatra entrò per controllare la bambina, da lei chiamata correttamente col nome che io e il padre avevamo scelto (più io, in verità), si rivolse a me chiamandomi “mamma”. Pensai si trattasse di una specie di vezzo della dottoressa, ma mi accorsi che era un vezzo comune a tutto il reparto. Le ostetriche entravano e dicevano cose del genere “mamma, prendi la bambina così, attaccala al seno in questo modo”. Ogni volta che dicevano quella parolina mi giravo istintivamente verso mia madre, perché nella mia mente lei era la mamma. Poi mi resi conto: lei era la “nonna”. Due titoli nuovi di zecca ci erano stati appena affibbiati, dovevamo abituarci.
Ora, il mio nome era scritto bello grande sotto quello di mia figlia, affisso sulla culletta: perché non fare lo sforzo di leggerlo? Capivo che, in un reparto così grande, ricordare i nomi di tutte sarebbe stato complicato, ma lo sforzo di leggere anche la seconda riga del cartellino non mi sembrava così improbo. Che lo facessero per farci abituare all’idea? Una specie di memento mori: hai fatto un figlio, ti attendono notti in bianco, anni folli dell’adolescenza, altre notti in bianco, primi amori e altre notti in bianco. Auguri.
Uscite dall’ospedale, la stessa scena si riproponeva ovunque: chiamavo la pediatra, e mi presentavo col mio nome. Attimi di imbarazzato silenzio: “sì, cioè, sono la mamma di…”. Andavo in un negozio: “che bella bimba! Come si chiama? No, non lei, sua figlia”. Da quando avevo un anno e mezzo i miei genitori mi avevano insegnato a presentarmi e, all’improvviso, quella formuletta ripetuta per più di tre decadi non mi serviva più. Sono la mamma di.
Fui quasi felice della visita ginecologica a un mese dal parto: “Come si chiama, signora? No, non sua figlia, lei!”. È stata una delle ultime volte in cui ho detto il mio nome e a qualcuno interessava. Ho sempre visto con perplessità l’uso arabo, dopo aver partorito, di assumere l’appellativo di “madre di” al posto del nome. Ma, in fondo, la situazione qui non è diversa. Smetti di esistere come individuo isolato, indipendente, e vieni identificato dal resto delle società non più col nome arbitrariamente scelto per te dai tuoi genitori, ma con quello che hai arbitrariamente scelto per tuo figlio. Questo vale solo per la madre o, almeno, sopratutto per lei. Non penso che il mio compagno abbia avuto (e con lui tutti gli altri padri) grosse crisi di identità.
Se sia giusto o no, non lo so: ma è naturale. Un figlio è una cosa definitiva e bellissima. Tu vieni in secondo piano, la tua vita è necessariamente orientata tutta nella sua direzione, ma abdicare prima del tempo in favore dell’Infanta mi sembra eccessivo: non potrei mantenere almeno la reggenza, nei prossimi 18 anni?
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